Canto Gregoriano

LA PAROLA DI DIO DIVENTA MUSICA:

Cosa è il “canto gregoriano”
Se dovessimo definire il canto gregoriano potremmo dire: “la Parola di Dio che diventa musica”, infatti “in principio era la Parola” (Gv 1,1) e, quindi, esso è esclusivamente preghiera, preghiera cantata, in cui la melodia è “amplificazione” della parola e, più precisamente, della Parola di Dio. La voce umana che canta è la più bella espressione del nostro essere persone in relazione con Dio, e solo l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio è degno di rendere gloria a Dio. Questo è il motivo per cui nelle liturgie orientali non è ammesso l’uso di strumenti musicali durante le celebrazioni. Ciò vale anche per il canto gregoriano: non è accompagnato da strumenti musicali!
Il canto gregoriano è il canto liturgico per eccellenza perché parte dalla Parola di Dio, prende forma dalla Parola di Dio e si interpreta a partire dalla Parola di Dio. Anche quando il testo non è biblico ha sempre la Bibbia come modello di riferimento.

Perché “gregoriano”
La qualifica di “gregoriano” si riferisce al papa san Gregorio Magno (590 – 604) e più specificatamente alla grande opera di riforma della liturgia di cui è espressione il Sacramentarium (=Messale) Gregorianum, anche se gli studiosi ritengono che la pubblicazione di questo libro sia posteriore al papa Gregorio Magno. Non ci si addentra in questioni filologiche, ma è importante notare come l’opera di questo pontefice sia stata considerata un nuovo inizio per la liturgia romana e – nello specifico – lo stesso canto gregoriano, secondo l’agiografia medioevale, sarebbe stato ispirato a san Gregorio Magno dagli angeli. Questo sta a significare che – a partire dalla successiva riforma carolingia – la liturgia gregoriana, compreso il canto, iniziò ad essere considerata come opera ispirata da Dio e quindi connotata da una particolare sacralità e intangibilità.

La storia
Si parla di canto gregoriano a partire dall’epoca carolingia (tra l’VIII e il IX sec.). Su richiesta di Carlo Magno (768 – 814) il papa Adriano I (772 – 795) inviò un sacramentario gregoriano al re franco che aveva l’intento di uniformare il più possibile la liturgia franca (gallicana) a quella papale. Il prezioso libro liturgico, quindi, venne conservato presso la cappella palatina di Aquisgrana e considerato normativo per tutto il regno. A questo sacramentario, tuttavia, vennero fatte delle integrazioni con formulari già in uso nella Chiesa franca. Il sacramentario, infatti, era stato pensato per la sola liturgia del Papa e quindi non prevedeva molte parti necessarie per una liturgia di uso universale. Tuttavia vennero considerati come normativi solo i testi del libro inviato da Roma, mentre le aggiunte erano meno vincolanti. Avveniva, dunque, l’incontro e la commistione tra la liturgia romana e quella gallicana, che sarà caratteristica della Chiesa occidentale.
L’incontro tra la Sede Apostolica e il regno franco avvenne a seguito della minaccia che i Longobardi rappresentavano per i territori pontifici e per il Papa. In precedenza la sede imperiale di Costantinopoli garantiva protezione anche alla Chiesa occidentale, ma i rapporti si erano raffreddati per due motivi: da un lato, infatti, anche l’impero di Oriente era minacciato dagli Arabi che conquistavano sempre più territorio, con l’aggravante che imponevano la religione musulmana, per cui non si trattava solo di difendere un territorio, ma di garantire la sussistenza della romanitas e dello stesso cristianesimo. D’altra parte, a livello teologico, era sopravvenuta la crisi iconoclasta. L’imperatore Leone III l’Isaurico (717 – 741) emanò un decreto che vietava la venerazione delle immagini sacre e ne ordinava la distruzione: questo per liberare – a suo avviso – il culto divino dalla idolatria. Ovviamente il Papa di Roma condannò tale posizione, contraria alla dottrina cristiana, e questo rese i rapporti tra le due parti della Chiesa ancora più critici.
Di fronte alla minaccia longobarda, pertanto, il papa Zaccaria (741 – 752) chiese aiuto a Carlo Martello (739), maggiordomo dei Franchi, ottenendo scarsi risultati. La via d’incontro tra Franchi e Papa era, però, aperta e il rapporto tra il regno e la Sede Apostolica si strinse con il figlio e successore di Carlo Martello, Pipino il Breve (752 – 768) che accordò la sua protezione al papa Stefano II (752 – 757), successore di papa Zaccaria, di fronte alla ulteriore incursione longobarda ad opera del re longobardo Astolfo (749 – 756). Pipino il Breve sconfisse dunque i longobardi nel 751 e nel 756 e consegnò i territori liberati dai barbari, l’esarcato di Ravenna e il ducato romano, al Papa.
Sebbene l’alleanza tra Carolingi e Sede Apostolica fosse avvenuta per circostanze politiche, l’opera di riforma liturgica – e non solo – promossa da Carlo Magno fu di fondamentale importanza. Per la prima volta nella Chiesa di Occidente il culto era regolamentato dall’autorità centrale e uniformato in tutto il territorio. Prima, infatti, esistevano tradizioni liturgiche regionali: tra esse ricordiamo la romana, la beneventana, la milanese (o ambrosiana), la mozarabica (in Spagna). Ogni liturgia regionale aveva, ovviamente, anche un canto proprio che, da questo momento, venne soppiantato dalla liturgia romano-franca e dal suo canto imposto su tutto l’impero: è quello che conosciamo come “canto gregoriano”. Tuttavia si può osservare come la liturgia ambrosiana e quella mozarabica sopravvivano ancora oggi con la loro vitalità, in quanto riconosciute come liturgie regionali particolarmente antiche all’interno della Chiesa Cattolica.
Da questo panorama storico si capisce, dunque, che il canto gregoriano è l’incontro tra il canto gallicano e quello romano e mantiene caratteristiche delle sue origini per cui anche i canti più antichi (IV – VII) del repertorio romano hanno subito l’influsso della tradizione gallicana. Tale reciproco influsso riguarda oltre al rito, il diritto canonico e la stessa regola dei monaci: furono infatti i Franchi a imporre a tutti i monasteri dell’impero la osservanza della Regola di san Benedetto.

Elementi del canto gregoriano
Il canto liturgico antico (nelle sue varie espressioni) trae origine dalla declamazione musicale del testo biblico, di origine sinagogale, che aveva lo scopo di solennizzare il testo e poi di evitare che l’interpretazione del lettore contaminasse la Parola di Dio. Si cantava, dunque, su una sola nota (recto tono) il testo, e sulla base di questa corda di recita si svilupparono formule di intonazione (note che portavano il canto alla corda di recita) e di cadenza (ossia inflessioni o variazioni che indicavano una pausa o il termine di frase). Il successivo sviluppo fu di dotare di particolare ornamentazione musicale le parole o le parti che rivestivano particolare importanza. Si veniva così a creare una linea melodica basata su formule (ossia su sequenze melodiche “prefabbricate” che venivano adattate a più testi). Lo scopo delle formule era essenzialmente mnemonico, in quanto, ricordiamolo, i libri manoscritti erano assai costosi e quindi esistevano solo quelli strettamente necessari. La memoria, dunque, aveva un ruolo fondamentale nel supplire alla scarsità di libri. Questo non valeva solo per il canto e la liturgia, ma in ogni ambito del sapere si utilizzava la memoria, per cui gli studenti imparavano a memoria passi di autori, lezioni e commenti agli autori. Inoltre l’utilizzo di formule ha anche la ricchezza di richiamare alla memoria altri testi, così una formula che si utilizza molto in Quaresima, per esempio, dà ad un testo un gusto quaresimale, una formula tipica di un inno alla Madonna, dà un gusto mariano ad una successiva melodia.
La musica liturgica, però, oltre che riferirsi al canto sinagogale, attingeva alla contemporanea musica romana, già eredità ed elaborazione di quella greca, per cui si costituì il sistema dei modi. Possiamo definire il modo come una scala musicale in cui si instaura un rapporto tra una nota, considerata di riposo, finale, e una considerata di recita, o dominante, e questo regola tutte le relazioni tra le altre note. Il sistema modale prevede otto modi (octoechos), anche se in una fase più antica ne venivano adottati dodici. Ad ogni modo sono associate delle formule modali.
Con questi elementi (corda di recita, formule di intonazione, cadenza, e di altro tipo, ornamentazioni varie) si costruisce un brano musicale. Il punto di partenza, come si vede, è il testo, per cui una intonazione porterà alla corda di recita sulla base di un inciso testuale di significato compiuto, una parola importante del testo sarà particolarmente ornata, una conclusione di frase sarà musicata con un formula di cadenza, una frase di non particolare importanza sarà caratterizzata da semplici note, cantata con uno stile recitativo, declamatorio.

Un esempio
Per meglio comprendere quanto fin ora detto proviamo ad analizzare un testo per osservare come tutti questi elementi siano armonizzati tra loro: è tratto dalla liturgia delle Ore dei defunti:

Il testo dice: Esaudisci, Signore, la mia preghiera: ogni carne a te verrà. È una parafrasi del salmo 65 (64),3 che recita: Qui audis orationem, ad te omnis caro veniet (= a te, che ascolti la preghiera, viene ogni mortale). È ben adatto per la celebrazione dei defunti, infatti troviamo tre elementi: l’uomo mortale, la preghiera di invocazione, Dio come destinazione ultima degli uomini.
Ora vediamo come la musica declama questi elementi.
Si tratta di una invocazione supplice: Exaudi, Domine orationem (=esaudisci, Signore la preghiera) è cantato sulla corda di sol (finale del modo VIII) ornata con la nota superiore (la) e la nota inferiore (fa) ripetute: questa “nenia” esprime il tono supplice, che si eleva sulla parola meam (corda di do, dominante dell’VIII modo) particolarmente ornata, per sottolineare la orationem meam (=la mia preghiera), quindi la preghiera che viene da me.
Poi il testo continua: ad te omnis caro veniet (=ogni carne verrà a te). Il testo è cantato in modo recitativo, infatti si utilizza per le parole ad te omnis caro la corda di recita do nella formula di cadenza mediana (do-si-la-do) della normale recitazione. Al termine di caro, però abbiamo un si che provoca una sospensione che mette in evidenza l’inciso omnis caro. Questa si risolve in cadenza finale sulla parola veniet che è costituita dalla corda sol (finale modale) ornata con la sottotonica fa.

Una curiosità: E u o u a e.
Il brano che abbiamo considerato è un’antifona, ossia una frase del salmo che veniva inizialmente intercalata con la declamazione del salmo stesso (seguendo il modo dell’antifona). In seguito questa frase si è cantata solo all’inizio e alla fine (passando da ritornello ad antifona). Il numero posto all’inizio (VIII) indica il modo, e quindi la melodia del salmo che tutti sapevano a memoria, mentre le note sulle parole E u o u a e (=SaE cU lO rUm AmEn) indicano quale delle varie conclusioni previste per il tono utilizzare. Ogni salmo finisce in gloria! Che termina appunto con le parole saeculorum. Amen.

DOM LUIGI D’ALTILIA OSB