LavoroIL LAVORO NELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO Mentre nell’antichità pagana il fatto di lavorare non fu mai ritenuto un atto positivo ma una forma di punizione degli dei e il compito esclusivo degli schiavi, il monachesimo dei primi secoli scoprì subito il valore spirituale del lavoro. Per gli antichi monaci si trattava solo di lavoro manuale, il lavoro non aveva nella loro mentalità altra accezione; erano esclusi sia il lavoro intellettuale, perché la maggioranza dei monaci era incolta, sia il lavoro apostolico o ministeriale, perché quasi tutti i monaci erano laici e perché tale attività diventava incompatibile con la solitudine e la contemplazione. Il lavoro manuale, quindi, assunse una grande importanza soprattutto presso i cenobiti. Un celebre esempio di vita dedicata al lavoro è quella di Antonio il Grande che, secondo la celebre vita scritta da Atanasio, si ritirò nella solitudine: “Lavorava con le proprie mani perché aveva udito che l’ozioso non deve neppure mangiare (2Ts 3, 10). Col suo lavoro non solo si comprava il pane ma faceva anche elemosina ai poveri”(Vita di Antonio capitolo 3). Quando san Benedetto scrive la Regola, la situazione del lavoro dei monaci era cambiata rispetto al monachesimo primitivo. In generale al tempo della Regola i monaci svolgevano lavori manuali sia in monastero sia in piccoli orti, ma essi non erano redditizi e da essi non dipendeva il loro sostentamento, affidato alle entrate dei contadini laici cui erano date in affitto, le proprietà terriere del monastero. San Benedetto scrive nella sua Regola al capitolo 48 (del lavoro manuale quotidiano): San Benedetto stabilisce all’inizio di questo capitolo due cose fondamentali. La prima è che l’ozio, essendo nemico dell’anima, deve essere occupato con il lavoro e la lectio. La seconda cosa è che queste due attività, devono occupare alternativamente il monaco perché sia veramente monaco. Questa alternanza delle ore e dei giorni che scandiscono la nostra vita, ha una grandissima importanza. Innanzitutto perché, se così non fosse, rischieremmo di farci scoraggiare dalla monotonia della vita, ma soprattutto perché esprimono qualcosa di fondamentale dell’essere umano: siamo fatti per ricevere e per dare, per fare e per lasciarci fare. Il lavoro e la lectio esprimono questi due atteggiamenti dell’uomo. Nel lavoro si potrebbe vedere la gioia di donarsi, di dare un pò del proprio tempo, della propria energia, della forza, della creatività, del proprio entusiasmo, nella lectio si riconosce la capacità di ricevere, di lasciarsi prendere per mano, di lasciarsi guidare da un altro. Il monaco è colui che ha fatto della preghiera, la sua professione e il monastero è l’officina dove la esercita. Anche il lavoro deve divenire una tecnica di preghiera perché il monaco deve imparare a lavorare con Dio. Il lavoro manuale è un’ascesi in quanto ci permette di adeguarci alla realtà uscendo dal nostro piccolo mondo personale, di ritornare con i piedi per terra, di rispettare i ritmi degli altri, di accettare i nostri e i loro limiti. Così, il lavoro manuale, diventa un cammino di purificazione e di silenzio interiore. Sempre nel capitolo 48 della Regola sul lavoro manuale, al verso 11, san Benedetto scrive: “Tutti si occupino del lavoro ad essi prescritto”. Una delle caratteristiche del lavoro monastico è infatti quella di essere assegnato e non scelto dai monaci. Ciò potrebbe sembrare banale quante persone fuori dal monastero ogni giorno non scelgono il proprio lavoro! In effetti, si tratta di qualcosa di più importante dell’organizzare il proprio orario di lavoro. Il cammino di intimità con Dio che il monaco persegue, richiede una radicale rinuncia a se stessi, alle proprie idee su Dio, sulla preghiera, alle proprie illusioni su se stessi. Cercando di organizzare la vita a modo nostro molto spesso cerchiamo di sfuggire a questo confronto con noi stessi e con Dio. In definitiva, il lavoro in monastero, è prima di tutto un lavoro su se stessi perché imponendo delle regole e dei limiti, aiuta la persona a trovare un cammino di libertà in rapporto ai propri sentimenti, ai propri desideri, alle proprie aspirazioni. San Benedetto, oltre che guardare a se stessi, invita i monaci a guardare verso gli altri, i confratelli che vivono in monastero, e prescrive che il lavoro non opprima le capacità altrui, sottovalutando o sopravvalutando gli altri. E questo è compito dell’abate che, per far ciò, deve arrivare ad una vera conversione verso i suoi monaci per poter vedere l’altro con gli stessi occhi di Dio. Questo atteggiamento però, anche se in primo luogo investe l’abate in quanto padre del monastero, deve essere vissuto da tutti i monaci della comunità, qualsiasi sia il loro ruolo. In ultima analisi il monaco non ha la vocazione a coltivare, dissodare, prosciugare paludi, allevare api, copiare codici o insegnare. Egli non ha che intenti spirituali. Tuttavia la presenza e l’azione dei monaci, sono all’origine di un movimento economico e culturale che contribuirà all’evoluzione della civiltà europea. |